Un bar. Di notte, è evidente.
Potrebbe essere anche un cabaret, o un teatro.
Musica di pianoforte. O un bandoneón.
Chissà una chitarra.
Forse, pure, una canzone.
Dipende:
un tango, un bolero, una nostalgia greca,
qualcosa di impalpabile, come un blues,
irraggiungibile
come le cosce di questa ragazza di Venezia
che ti guarda dal fondo del tuo bicchiere.
Ricordare, quando uno è o sta solo,
fa più male che immaginare:
questo è quello che vogliamo dimostrare.
Il microfono amplifica la vera voce, l’assenza:
si tratta del viaggio a una donna come a una città
alla quale non si giunge da invisibile, da lontano.
E se uno giungesse e stesse lì, in lei,
si tratterebbe, con questa musica,
di una separazione
che sarà per sempre, come sempre.
A chi dare la colpa?
Sono destino il paese che non avesti,
la donna in cui non entrasti?
Una compagnia – qualsiasi–, più o meno coniugale,
o da poco incontrata, dico più o meno duratura,
mai l’amata non cercata,
mai la presentita,
distruggerebbe questa sensazione agrodolce o dolceamara
di ciò che non è, ciò che non fu,
senza che importi
la voce o il volto che le appartengono,
né l’età che le sue gambe sostengono:
ciò che non può essere
perché se fosse non sarebbe.
E in fondo, farebbe male che non facesse male.
Persino che non facesse male più di quanto fa male.
Jorge Enrique Adoum