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Clientela [Cli-en-te-la]
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In Roma antica i clientes erano persone subordinate a un patrono, vuoi per scelta libera vuoi per necessità . I Patrones davano protezione, assistenza giudiziaria ed alargivano cibo, denaro e vettovaglie (sportula). I clientes, a loro volta, procuravano al patrono voti alle elezioni e spesso militavano nell'esercito sotto sua richiesta.Va detto che intere gentes divennero clientes dei generali romani che avevano conquistato i loro territori.
Passano i tempi, ma i costumi (mala mora,more maiorum,pravitas morum) restano. Così, i clientes si vendono a tutt'oggi al miglior offerente, diventando schiavi, portaborse, difensori di una parte anche se, cripticamente, la pensano in tutt'altro modo.
Clientela politica? Sì, ed ha anche nobili origini :lol:. Storiche :roll:.
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1 allegato(i)
Il Martin Pescatore
Allegato 1080
È uno degli animali più simpatici, per lo meno a mio modo di vedere. Il nome scientifico è Alcedo atthis
MARTIN PESCATORE, sta per uccello (di San Martino) pescatore per la sua abitudine di tuffarsi per catturare i pesci.
Alcedo, deriva dal greco alkuon = alcione, o uccello marino, mentre atthis deriva da Attica, in quanto si ritiene che sia proveniente da quella antica regione greca.
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Originariamente inviato da
Sir Galahad
È uno degli animali più simpatici
Vero vero, è anche bellissimo. :)
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Sale [sa-le]
è il comune sale da cucina, cloruro di sodio che solidifica nelle saline; salgemma, invece, come minerale.
Deriva dal greco als: in questa lingua al singolare, cosa singolare :lol:, è adoperato sia come "sale"(maschile) che (femminile) "mare", accezione metonimica [il nome Alice deriva, appunto, dalla radice al- di als, marina, indicando con ciò tutto ciò che proviene dal mare].
Al plurale è attestato solo il maschile oi ales, col significato di facezie, motti arguti. In latino si ha il corrispondente sales (arguzie)
Ho studiato dai padri Salesiani e ogni tanto -me lo potevo permettere- li prendevo in giro: nel senso che mi divertivo a dir loro che il loro nome, Salesiani, non derivava da San Francesco di Sales (cui Don Bosco intitolò la sua congregazione) ma dal fatto di essere persone veramente "argute". E da persone argute, mi lasciavano dire.
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Particolare [par-ti-co-la-re]
Dal latino particula, particella, ossìa una parte minima di un certo insieme. Lemma che si adopera quando si vuol sottintendere un'importanza, una particolarità, nel significato e nella portata di un qualcosa.
Quando si adopera questa parola, per evitare fraintendimenti, andrebbe sempre specificata la portata ed il significato della "particolarità".
Contrari: Generale, pubblico, esteso.
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Idiosincrasia [i-dio-sin-cra-si-a]
A proposito di "particolare", qui ha rilevanza una parola simile nell'accezione, idiosincrasia.
Idiosincrasia, dal greco Idios, proprio, e synkrasis, carattere. Quindi, carattere proprio, originale, genuino, facente parte a sè. L'idiosincrasia genera lo stile proprio di ogni artista o scrittore. Più in generale, della persona.
Col tempo idiosincrasia ha sviluppato una spiegazione tutta particolare: si dice idiosincrasìa, nel parlar comune, l'avversione verso qualcuno o verso qualcosa. Va rilevato però che l'idiosincrasia non è qualcosa di esterno al sè, ma è confinato nella personalità stessa; la quale, però, è soggetta a variabili, col tempo e con la vita sociale.
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Quote:
Originariamente inviato da
Sir Galahad
Particolare [par-ti-co-la-re]
Quando si adopera questa parola, per evitare fraintendimenti, andrebbe sempre specificata la portata ed il significato della "particolarità".
Il mio professore di laboratorio di scrittura diventava furioso se leggeva cose come "Un po' particolare" o "Molto particolare", perchè diceva che è scorretto, in quanto una cosa o è particolare o non lo è. Non può esserlo poco o tanto.
Probabilmente aveva ragione, ma credo che certe certe scorrettezze siano ineliminabili se ci si vuole esprimere in modo efficace. Ad esempio, tutti sappiamo che non si dice "A me mi", però tra dire "Non me ne frega niente" e "A me non me ne frega niente" c'è differenza. Il doppio complemento di termine del secondo caso è un rafforzativo, solo dicendo così si ha davvero la sensazione di rendere l'idea che ce ne sbattiamo altamente di qualcosa. :mrgreen:
(Anche la doppia negazione non sarebbe appropriata, ma si usa abitualmente)
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Originariamente inviato da
Tregenda
Probabilmente aveva ragione, ma credo che certe certe scorrettezze siano ineliminabili se ci si vuole esprimere in modo efficace. Ad esempio, tutti sappiamo che non si dice "A me mi", però tra dire "Non me ne frega niente" e "A me non me ne frega niente" c'è differenza. Il doppio complemento di termine del secondo caso è un rafforzativo, solo dicendo così si ha davvero la sensazione di rendere l'idea che ce ne sbattiamo altamente di qualcosa. :mrgreen:
È vero, è un rafforzativo, ed è adoperato anche da scrittori di chiara fama. Infatti, si tratta non di un errore grammaticale, ma di una sovrabbondanza di termini, ossìa di un pleonasmo (dal greco pleonasmòs, ossìa esagerazione) , adoperato solo per dare colore e scorrevolezza alla frase e rafforzare un concetto. La maestra lo sottolinea con la matita blu soltanto per indurre lo scolaro ad usare termini non ripetitivi e ad arricchire, così, il proprio vocabolario. Resta una forma stilisticamente non corretta, però, anche se la grammatica chiude bonariamente un occhio.
La lingua italiana è piena di espressioni molto colorite. L'anacoluto ne è un esempio. Si ha un anacoluto (dal greco: senza senso; in latino: nominativus pendens) quando un discorso, iniziato secondo una certa costruzione sintattica, improvvisamente segue un'altra strada espressiva e si esprime con un'altra costruzione.
Alessandro Manzoni, nei Promessi Sposi, scriveva:
Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro.
Noi altre monache ci piace sentire le storie
(due anacoluti...)
Giovanni Pascoli, in Romagna, scriveva:
Io, la mia patria or è dove si vive.
L'anacoluto dona un linguaggio scorrevole,immediato, direi "popolare", usatissimo nel parlare corrente.
Così, in parallelo, ripetizioni del tipo "a me mi" danno forza, scorrevolezza, immediatezza, facile comprensibilità e colore allo scritto.
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Quote:
Originariamente inviato da
Sir Galahad
Sale [sa-le]
Deriva dal greco als: in questa lingua al singolare, cosa singolare :lol:, è adoperato sia come "sale"(maschile) che (femminile) "mare", accezione metonimica [il nome Alice deriva, appunto, dalla radice al- di als, marina, indicando con ciò tutto ciò che proviene dal mare].
Al plurale è attestato solo il maschile oi ales, col significato di facezie, motti arguti. In latino si ha il corrispondente sales (arguzie)
.
Da sales deriva una parola molto usata: salace. La si usa per esprimere un livello alto di arguzia.
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C'è una parola molto simpatica, a mio avviso, con un'etimologia interessante:
Mostro [dal latino monstrum, segno degli dèi, fenomeno contro natura, prodigio, di origine
indeuropea]
La prima definizione che mi dà il dizionario è la seguente: "Personaggio mitologico o leggendario che presenta forme strane o innaturali."
Il significato più usato nella lingua di tutti giorni è quello figurato, nel senso di "persona che possiede determinate caratteristiche,
positive o negative, in sommo grado", es.: "E' un mostro di bravura", "Un mostro di crudeltà."
Vi è anche la triste accezione della parola attribuita a un essere vivente deforme, che possiede delle caratteristiche fisiche che deviano dalla norma.
Sicuramente la definizione di "mostro" come prodigio è quella più affascinante.
Ai tempi della scuola, il termine "monstrum" lo ritrovai in un brano in cui si parlava del mito delle sirene,
e mi sorprese, perché la connotazione negativa di quel vocabolo strideva con l'immagine romantica che avevo di
queste creature mitologiche.
Un'espressione che si utilizza spesso per indicare un individuo particolarmente talentuoso, e che in virtù di questo suo talento ha acquisito
fama e autorevolezza, è quella di mostro sacro.
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Quote:
Originariamente inviato da
Indigowitch
C'è una parola molto simpatica, a mio avviso, con un'etimologia interessante:
Mostro
Sicuramente la definizione di "mostro" come prodigio è quella più affascinante.
Sicuramente.
Monstrum indica un prodigio, ma un prodigio che parla intimamente a chi lo avverte: infatti, deriva dal tema di monere: avvisare, ammonire.
Il mostro, nel significato originario, è l'apparire, il manifestarsi, il mostrarsi improvviso di qualcosa di straordinario, viola la e che è un ammonimento per chiunque lo avverta come presagio, indicazione. Il presagio, a sua volta, suscita meraviglia e di stupore .
Ma un'accezione molto antica indica in mostro qualcosa che esula dalla comune esperienza e che si ritrova nella Natura. Così, i Salmi parlano di mostro:
SALMI 74:14 Al Leviatàn hai spezzato la testa, lo hai dato in pasto ai mostri marini.
Salmi 148:7 Lodate l’Eterno dalla terra, voi mostri marini e abissi tutti...
Virgilio, ne L'Eneide descrive un fatto prodigioso: un ramo da cui sgorga sangue. Il fenomeno viene definito con il termine monstrum.
[...] Era nel lito
Un picciol monticello, a cui sorgea
Di mirti in su la cima e di corgnali
Una folta selvetta. In questa entrando,
Per di fronte velare i sacri altari,
Mentre de' suoi più teneri e più verdi
Arbusti or questo, or quel diramo e svelgo
Orribile a veder stupendo a dire,
M'apparve un mostro, chè divelto il primo
Da le prime radici, uscir di sangue
Luride gocce, e ne fu il suolo asperso.
Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse
Le membra tutte, e di paura il sangue
Mi si rapprese. [...]
Eneide, III, 38-51, trad. Annibal Caro
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Campa cavallo! (che l'erba cresce...)
Perchè si dice così?
Si racconta che un misero contadino, povero in canna, portasse a mano un cavallo vecchio, stanco, sfinito, per una strada ciottolosa; si poteva solo scorgere in lontananza un misero filuccio d'erba mezza ingiallita. Il cavallo, vinto dalla fame e dagli stenti, stava per stramazzare, quando il suo padrone cercò d'incoraggiarlo dicendogli: "Non morire, cavallino, cammina ancora un po'; vivi, campa finché crescerà l'erba che vedi laggiù e allora potrai sfamarti".
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Ah, ma guarda... Non la sapevo questa. Mi rendo conto solo adesso che non mi ero mai chiesta da dove derivasse l'espressione. Grazie, Carlo! :)
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Avere il "mal del prete".
Perchè si dice "avere il mal del prete"?
In Toscana è d'uso (o era, per lo meno nei borghi campagnoli), esprimersi anche con questo detto, che indica lo stato d'animo in cui ci si trova quando si viene a conoscenza di un segreto veramente irriferibile (e ci si trova, per l'appunto, nella stessa situazione del prete che viene a conoscenza di tutto, in confessione, ma non può riferire nulla a terzi di ciò che ha udito). Quando la voglia di trasmetterlo provoca insane reazioni corporali oppure smanie varie, si dice allora che si ha, appunto, il "mal del prete"
Nella silloge delle canzoni, ed in particolare nelle canzoni a ballo , si riconosce l’abilità di Poliziano cogliere con colorito poetico ed economia verbale un qualsiasi evento della vita comune , restituendola - poeticamente - in immagini uniche e vive, come una ballata di tipo popolare.
Ne è un esempio la ballata CXXI
Donne mie, voi non sapete
ch’i’ ho el mal ch’avea quel prete.
Fu un prete, questa è vera,
ch’avea morto il porcellino:
ben sapete ch’una sera
gliel rubò un contadino,
ch’ era quivi suo vicino,
altri dice suo compare;
poi s’andò a confessare
e contò del porco al prete.
El messer se ne voleva
pure andare alla ragione:
ma pensò che non poteva,
che l’aveva in confessione.
Dice’ poi tra le persone:
“Oimè, ch’i’ ho un male,
ch’io nol posso dire avale!”
E anch’io ho el mal del prete.
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Parossismo
[pa-ros-sì-smo]
È il momento di esasperazione massima, culminante. di uno stato d'animo.
dal greco: para , che è particella intensiva; e oxys , acuto.
È l'apice estremo, ossìa l'acme di una situazione, meglio di un sentimento. Si avrà allora parossismo dell'ira, dell'eccitazione, dell'odio, della gioia, dell'esaltazione: è , il parossismo, strutturalmente il vertice supremo, l'esasperazione di un sentimento, fino a quando la persona ne sopporta il massimo peso e reagisce ad esso con tratti dell'umore ad esso convenienti, adeguati.