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Chomsky
04-March-2018, 21:39
Franz Kafka è l'oggetto di indagine di Pietro Citati in un suo saggio davvero interessante "Kafka", che qui viene recensito da Enrico Filippini:

CARO CITATI... CARO Citati, dopo aver letto il suo Kafka (Rizzoli, pagg. 304, lire 23.000), credo di aver finalmente capito il senso di queste vite di uomini illustri a cui lei da anni si va dedicando (Tolstoj, Goethe...). Lei si abbandona al piacere di raccontare, fa una letteratura da transfert e va in cerca dell' esemplarità. Nelle prime pagine del suo libro lei presenta giustamente Kafka come lo Straniero, come lo Scapolo, come un uomo che sta di là da una parete di vetro, e parla dei suoi occhi abissali. Anche Benjamin, a cui risale la lettura dei romanzi di Kafka come parabole, parla dei suoi occhi: degli occhi di Kafka non si può non parlare. Un mio amico ne ha colto bene il terrore terrorizzante e la forza rivelativa dicendo: Prova a immaginare di avere in casa un bambinetto di tre anni di nome Franz Kafka che ti guarda: lui ti vede!. Negli anni, mi sono spesso domandato perché quando, sedicenne e sprovveduto, lessi Proust, mi venne la voglia di raccontare e di fare lo scrittore, e perché quando, l' anno dopo, lessi Kafka nelle edizioni nere di Kurt Wolff e poi di Rowohlt, decisi di ammutolire. Lo sguardo letterario di Kafka aveva visto tutto e la sua scrittura scarabocchiante così diceva lui aveva messo insieme il testo sacro ed ermetico definitivo. Poi cercherò di dire perché. Lei, frattanto, il bambinetto l' ha tolto di mezzo, e così ha praticamente eliminato coloro che lui guardava: il padre Hermann, la madre Julie Lowy e le sorelle Elli, Valli e Ottla, alla quale Kafka scrisse lettere meravigliose. Così lei non ha tracciato il romanzo familiare di Kafka, e se non sbaglio non indugia sulla Lettera al padre, che secondo me è una chiave importantissima tra le innumerevoli chiavi di Kafka. Non pensi che dica questo perché avrei preteso una psicoanalisi di Kafka. Nella sterminata esegesi che la sua opera ha suscitato, i tentativi di questo tipo sono anche troppi e desolanti. Ma è evidente che nella torturante vicenda di Kafka e nei suoi libri, la famiglia ha un ruolo capitale. Poiché lei omette di parlarne, a un certo punto suona arbitrario che cerchi di spiegare l' una e gli altri con la nevrosi e con un desiderio d' incesto che il bambino Kafka avrebbe provato, naturalmente scontrandosi con un tabù che allora era ancora assoluto; può sembrare un' indelicatezza o addirittura una volgarità. Nel suo libro, lei ricorda che quando Kafka arrivò, malato di tubercolosi, a Merano e vide la sua pensione, gli sembrò una tomba di famiglia, ovvero una fossa comune. In questa visione c' è una previsione, non soltanto del Terzo Reich, come pensava Klaus Mann, ma di un futuro che ci resta ancora da esplorare. Kafka è così. La questione del padre è più complessa, ed è connessa con la teologia di Kafka, di cui lei invece si occupa diffusamente. La questione del padre è connessa con la questione ossessiva dell' opera di Kafka: la Legge. Ma qui lei fa un' altra omissione: non si occupa del rapporto di Kafka con l' ebraismo, che è capitale. E' noto che Kafka, il quale, come lei ricorda, era un lettore del Genesi e dell' Esodo, non era religioso e conosceva poco la sua tradizione, per esempio la Kabbala e il Talmud. Ma altrettanto noto ed evidente è che dei grandi temi della tradizione ebraico-cristiana la sua opera è una prodigiosa ricapitolazione e un prodigioso svuotamento. La teologia kafkiana è la teologia ebraica a secolarizzazione compiuta: in questo sta la sua tormentosa grandiosità. Per questo non c' è redenzione. Di queste cose si sono occupati molti grandissimi studiosi, per esempio Gershom Scholem. Non mi posso addentrare; ma una cosa va rilevata, pena l' incomprensione. All' inizio di questo secolo, quando Kafka era un adolescente praghese ebreo che aveva già scelto la lingua tedesca, la cultura ebraica, imperniata sulla vigenza della Legge, conobbe una crisi senza ritorno. Infatti, come nota Stéphane Mosès, nella Lettera al padre Kafka non gli rimprovera di imporgli la Legge in modo autoritario (che sarebbe poco), ma di trasmettergliela in modo ambiguo e contraddittorio. La Legge gli appare così priva di contenuto e insignificante, ammantata soltanto dalla sua gratuita pretesa di legalità. Non mi pare poco. Come si fa a intendere Il processo se questo non si sa? Anche qui, non pensi che io pretenda una storicizzazione di Kafka: aborro questo genere di cose. Pretendo solo di poter rivivere dall' interno la sua profezia, perché di questo si tratta. Mi spiego: se i Vangeli hanno costituito la profezia dell' inizio di un' era, l' opera di Kafka è la profezia della sua fine e del tempo a venire, anche del tempo che è già il nostro. La differenza sta solo in un punto: che Cristo accetta con estrema durezza di morire (vedi Matteo) perché andrà a sedersi alla destra di Dio Padre. Anche Kafka accetta di immolarsi, ma il Padre non c' è: al suo posto c' è un immenso vuoto. Nel suo libro è colto bene, infatti, il gesto fondamentale della scrittura di Kafka, che è proprio quello del sacrificio e di un autoannientamento consistente, insieme, nell' unica possibile autoaffermazione; ma da lei questo gesto viene per così dire addolcito (umanizzato) e cristianizzato: il tragico kafkiano è un po' più in là. La teologia kafkiana non può essere ridotta a una teologia dialettica e tantomeno a una unità dei distinti e neppure degli opposti: in lui, come notava Adorno (che lei non cita), l' eternità è quella del sacrificio ripetuto all' infinito. Forse questo ci è richiesto o imposto, per il momento. Così, lei coglie molto bene le sterminate fasi terrorizzanti delle opere di Kafka, per esempio della Metamorfosi (1914) o del Processo, come racconta molto bene le avventure di Karl Rossman nel grande continente di America (o Il disperso). Ma non parla di un particolare, secondo me importante. MAX Brod, il grande amico, racconta (e a me lo raccontò anche Kurt Wolff) che Kafka, il quale amava leggere i suoi testi agli amici e avrebbe desiderato legger loro L' éducation sentimentale di Flaubert in una volta sola, leggeva ridendo. Anche questo riso era abissalmente espressivo, un' altra chiave della sua opera e della sua teologia. Un' altra cosa: ancora un' omissione. Lei dice, citando Marthe Robert, che America è un romanzo realistico sulle città moderne. Credo che sia vero, anche se bisognerebbe forse mettere tra virgolette il realistico, perché lo sguardo di Kafka era quello dei raggi Rontgen piuttosto che quello della semplice percezione. Del resto, la città moderna, le sue soffitte, le sue cantine, i suoi magazzini, soprattutto i suoi rifiuti (la teologia di Kafka ha luogo quasi esclusivamente tra i rifiuti), è presente o incombente in quasi tutti i suoi libri. Anche nel Castello, che si svolge in un villaggio: perché tra il Castello, in cui presumibilmente abitano gli dèi, e il villaggio, non c' è nessuna differenza. La città moderna è il problema politico di Kafka. Dunque, lei omette di ricordare il viaggio in Italia con Max e Otto Brod, la vacanza sulle rive del Garda e un breve testo intitolato Aeroplani a Brescia. Quando lo lessi mi parve un testo politico, anche se non lo è esplicitamente. Siamo nel 1909; Kafka ha ventisei anni; inizia i prodigiosi Diari. L' anno dopo, a Praga, come scrive il suo biografo Klaus Wagenbach, frequenta riunioni elettorali e pubbliche manifestazioni di massa di un gruppo socialrivoluzionario... Lei omette insomma di parlare dello sguardo politico di Kafka, forse perché pensa che si occupava soltanto di questioni pertinenti l' eternità. Invece, e anche in questo Kafka fu un profeta, la sua opera, così sottratta alla storicità, è intensamente politica: ha un tono, com' è stato scritto, di estrema sinistra, e legge il Politico con radicale perspicuità. Lei certo ricorda qualcosa che non ha citato: A tutti i miei coinquilini. Possiedo cinque fucili-giocattolo. Sono appesi nel mio armadio, uno per ogni gancio. Il primo appartiene a me, per gli altri può presentarsi chiunque.... Finalmente, nel suo libro non ricorre mai il nome di Freud, che quando Kafka scrisse, nel 1904, la Descrizione di una battaglia, aveva pubblicato da quattro anni L' interpretazione dei sogni. Capisco, ma non mi fraintenda: non voglio psicologizzare un uomo che aveva assunto come principio questa frase decisiva: Per l' ultima volta, psicologia. Al contrario: perché anche Freud rappresenta il momento forte della crisi di un mito, il mito dell' individuazione, dell' io, del soggetto e della cultura ad esso connessa. Freud, scomponendo l' io e trasformandolo in un campo di forze contrastanti, strappò la psicoanalisi alla psicologia. Kafka lo seguì alla lettera e fino all' assurdo, anche se forse neppure lo conosceva, come non conosceva il Talmud, e anche se non poté leggere Mosè e il monoteismo. Accettò di vivere nel centro della follia, alla quale estorse per un soffio e con le unghie il suo lavoro. Anche per questo parla a noi, irrevocabilmente. Dico questo perché lei, raccontando molto bene come Kafka scrivesse in pochi giorni nientemeno che Il processo, o La Metamorfosi o Il castello (sono molto belle le pagine in cui evoca quel povero scrivente notturno, lo scrivente-talpa, lo scrivente-cane, lo scrivente-scarafaggio sepolto in una cantina), spesso dice: Parlava il suo inconscio. Ma lei capisce che l' inconscio non è una cosa, né un individuo loquente, né niente: è, secondo Kafka e Freud, il luogo del linguaggio dove si pronuncia e dove viene recepito il messaggio dell' Imperatore, che il suddito cinese ripeterà per sempre nei suoi sogni.

Chomsky
04-March-2018, 21:42
Non bisogna ripsicologizzare Kafka, perché, se lo facciamo, lui avrà vissuto e avrà scritto e sarà morto invano. Nel suo libro, mi è piaciuta la delicatezza con cui parla dei rapporti di Kafka con le donne: con la prima fidanzata Felice Bauer, con la seconda, Julie Wohryzek, con Milena Jesenska e finalmente con Dora Diamant (lei scrive Dyamant), con la quale visse l' ultimo anno (1923/24) a Berlino, e che poi lo accompagnò a Klosterneuburg per morire. Com' è noto, Kafka nutriva verso il sesso (che nella sua opera è abbondante e orripilante) una fobia assoluta, al punto che, come lei ricorda, ebbe a dire che per provare nausea gli bastava immaginare di cingere col braccio il fianco di una donna. Ma nello stesso tempo, della donna aveva un' esigenza assoluta, come dimostrano i due grandi epistolari, le Lettere a Felice e le Lettere a Milena. A MILENA consegnò i suoi Diari, come nel desiderio che lei decifrasse il suo enigma. E questo dono fu certamente un' oblazione totale. Milena, sulla quale nel frattempo sono stati pubblicati vari libri e che morì in un campo di concentramento, credo Auschwitz, lei la trascura un po' , come trascura un po' Julie (che aveva lo stesso nome della madre), e anche Dora Diamant. Io credo che anche nella fobia sessuale di Kafka, che certo fu uno strato della sua parete di vetro, si esprima una verità che ci raggiunge e che oggi già si vede: l' alienazione totale del sesso (mi passi il vocabolo hegelo-marxiano) nell' epoca del nichilismo totale. Kafka tuttavia non rinunciò mai a cercare la terra di Canaan, la vera e non borghese nuzialità. La mia sensazione (ma è solo una sensazione, perché qui sono male informato) è che la raggiunse in quei pochi mesi del 1923-1924 a Berlino, dove scrisse La tana, Una donnina e Josefine la cantante, un grande capolavoro. Purtroppo, per lui era già giunta l' ora di morire. (O forse, anche questo è possibile, come Mosè, morì prima di vedere la terra promessa). Nel suo libro, lei ricorda un episodio atroce. Quando Kafka pensò di poter amare Milena e di poter esserne amato, lo comunicò con estrema durezza alla fidanzata Julie. Lei gli disse: Cosa devo fare? Se me ne devo andare, vado. Lui rispose pressappoco: Sì, te ne devi andare. Ma Julie ribatté: Sì, ma io non me ne posso andare. L' ordine che ci viene dall' opera di Kafka (e forse per questo lui dispose che venisse distrutta), è lo stesso: Te ne devi andare. Ma anche la risposta è la stessa: Io non posso. Voglio dire: la ringrazio, caro Citati, di avere scritto questo libro, che come avrà capito non mi soddisfa interamente e che trovo troppo ricco di aggettivi; ma a proposito del quale avrei molte altre cose da dirle, perché mi ha riportato alla presenza della luce cinerea e aurorale di Kafka. E' questa la sua esemplarità. Credo che sia indispensabile star lì, a rischio di bruciare come il moscerino vicino alla lampada che lo acceca, nel tempo in cui la fune che disegna l' unica via non è più tesa lassù, in alto, come quella dello Zaratustra nicciano, ma è tesa, qui davanti, al livello della terra.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/10/13/caro-citati.html

Chomsky
25-March-2018, 18:01
Un biografo ha scritto che «una singola sillaba in Kafka può suscitare le emozioni del lettore fin nel profondo». Ecco, io sono uno di questi. Nel mio caso si tratta di una parola, benché a variare siano solo due sillabe. La parola è Strassenlampen (lampioni), e sta all’inizio della seconda parte della Metamorfosi. Tutto è cominciato quando mi sono accorto che nella più classica traduzione italiana invece dei lampioni c’era un tram. Come si fa a prendere un tram per dei lampioni? Ho guardato in giro: in una quantità di traduzioni nelle più diverse lingue sbucava il fantomatico tram. Che in tedesco si chiama Strassenbahn. Se un commesso viaggiatore può svegliarsi trasformato in uno scarafaggio, direte, anche un lampione può trasformarsi in un tram. L’apparente strafalcione, tram per lampioni, era già nella prima traduzione della Metamorfosi, uscita anonima nel 1925, un anno dopo la morte di K. Risalendone la peripezia ci si imbatte nell’appropriazione indebita di quella traduzione da parte di un gran signore delle lettere universali come Jorge Luis Borges. La traduttrice vera era Margarita Nelken, una donna spagnola dalla vita brillante, tumultuosa e triste.
Non era questo però a motivare il fervore che mi aveva preso. Il fatto è che a un certo punto mi è sembrato che il tram al posto dei lampioni fosse più bello, e che illuminasse la conclusione stessa del racconto. E non fosse un errore – Strassenlampen e Strassenbahn possono confondersi – ma una variante introdotta dallo stesso Kafka. Proporre una correzione addirittura della Metamorfosi è quasi come sfidare la lettera delle sacre scritture per le quali si fanno guerre micidiali. La filologia laica risparmia lo spargimento di sangue, tutt’al più qualche spargimento di cattedre. Ma è stato bello immaginarsi alleato di Kafka contro l’ordine tipografico costituito. Lettrici e lettori scusino le pagine pedanti: si possono saltare e riprendere dove la trama – il tram – torna sui suoi binari. A. S.
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La scintilla si accende leggendo un passo all’inizio della seconda parte de La metamorfosi (1915). Da qui prende le mosse il notevole “giallo-filologico” di Adriano Sofri, Una variazione di Kafka (Sellerio). Infatti nella traduzione de La metamorfosi, fatta da Anita Rho e pubblicata con il testo a fronte (Rizzoli 2001), si trova questa frase:

“I rilessi della tranvia elettrica chiazzavano qua e là il soffitto e le parti superiori dei mobili, ma in basso, dov’era Gregorio, faceva buio”.

Ma, nel testo tedesco, al posto di tranvia elettrica (che sarebbe: “elektrischen Strassenbahn”) c’è scritto “elektrischen Strassenlampen” (lampioni elettrici della strada). E infatti, ad esempio, una delle maggiori esperte italiane di Kafka, Andreina Lavagetto, nella sua traduzione (F. Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Feltrinelli 1991, p. 90), traduce così:

“La luce dei lampioni elettrici in strada si posava pallida qua e là sul soffitto…”

Ma già il titolo del racconto di Kafka è diverso dall’originale: “Die Verwandlung” significa infatti “La trasformazione”. In tedesco esiste il termine “Die Metamorphose” quindi Kafka, che conosceva Ovidio e Goethe, intendeva davvero parlare di “trasformazione”. Lo spagnolo Metamorfósis è l’evidente omaggio al capolavoro di Ovidio fatto dalla prima, rimasta anonima, traduttrice in spagnolo (nel 1925). Quella traduzione (che tra l’altro parlava di tram elettrici: “el reflejo del tranvía eléctrico”) fu ripresa pari pari, nel 1938, da Jorge Louis Borges, che per decenni è stato considerato il traduttore del racconto. Borges, che confessò che i suoi primi racconti “furono esercizi in cui provai a essere Kafka”, riconobbe alla fine che La metamorfosi non l’aveva tradotta lui (conversazione con Fernando Sorrentino, 1974).

L’andamento dell’indagine sulle traduzioni de La metamorfosi nelle varie lingue è degno della migliore tradizione poliziesca. Sofri risale genealogicamente fino all’“inizio” della questione, come ha fatto il suo amico Carlo Ginzburg in certi suoi celebri saggi, primo fra tutti “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, raccolti nel volume Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia (Einaudi 1986). Sofri nota che, finché fu vivo Kafka (che morirà nel 1924), ci furono soltanto due traduzioni del suo racconto: la prima, nel 1921, fu in ungherese (intitolata A változás: La trasformazione), a opera del futuro autore di Le braci (1942), Sándor Márai, morto suicida nel 1989. L’altra traduzione, in ceco, fu di una delle donne delle quali si innamorò Kafka: Milena Jasienská. Quella traduzione purtroppo è andata perduta. Ma c’è almeno una fantasmagorica storia legata a ogni traduzione di questo straordinario racconto che Kafka aveva iniziato a pensare e scrivere il 17 novembre del 1912, in una giornata di profonda depressione (“Una piccola storia che mi è venuta a mente a letto in mezzo a quello strazio, e che ora mi opprime nel punto più interno di me”, come scrisse quel giorno stesso a Felice Bauer).

“Vado pazzo per Google”, dichiara Sofri, che ammette apertamente di aver utilizzato nella sua indagine questo strumento moderno (che fornisce rapidamente testi, immagini, mappe) e di essersi avvalso, con soddisfazione, persino del traduttore automatico in inglese per “farsi un’idea” di quello che stava indagando. Procedendo avanti e indietro si incagliano così nella sua rete alcuni personaggi che sono dei veri e propri racconti a sé: l’occasione per aprire uno squarcio su vite e mondi assai singolari. Come quella della probabile autrice della prima traduzione spagnola (quella copiata integralmente da Borges): Margarita Nelken (1894-1968), “ebrea, donna, un po’ artista, intellettuale, comunista, puttana –traduttrice” che prese parte alla guerra civile spagnola e finì i suoi giorni a Città del Messico. Per lei, come per altri bizzarri personaggi che entrano, più o meno letteralmente, in questa vicenda, Adriano Sofri prova simpatia. Come, e anche con ironia non lo nasconde, egli propende per la “tesi del tram”: meglio il tram elettrico che i lampioni! Tra i tanti argomenti che mette in gioco a favore del tram, Sofri fa notare che “l’intera conclusione de La metamorfosi si svolge lungo il tragitto del tram”: i genitori e la sorella i Gregor hanno addirittura un vagone tutto per loro…

A un certo punto dell’indagine, come per miracolo, i fili iniziano a essere più chiari e meno ingarbugliati. Sembra di poter uscire più facilmente da questo “labirinto kafkiano”, anche se, in continuazione, entrano in gioco “elementi diversivi” che portano nuovamente lontano: come la questione del protagonista, Gregor, trasformato in un “insetto ripugnante”. Ma che cos’era? La maggior parte dei traduttori sostengono che fosse uno “scarafaggio”, ma lo scrittore-entomologo Nabokov scrisse che era un “coleottero”. Primo Levi lo definì uno “scarabeo”. La veneziana-piemontese Anita Rho traduce, a un certo punto, addirittura, “scarafone”…
È meglio non svelare i successivi retroscena dell’indagine per non togliere ai lettori il piacere di una lettura appassionante e che trova un ulteriore “colpo di scena” nel ritrovamento di una fotografia riprodotta dall’editore e studioso tedesco Klaus Wagenbach nel bel volume Due passi per Praga insieme a Kafka (Feltrinelli, 1996) e di una cartolina del 1910 dove si vede un tram elettrico passare per ponte Čech, sopra il fiume Moldava, in mezzo a lampioni elettrici…

Un quarto del libro, la parte conclusiva, è occupato dal ricco apparato di note: anche queste sono una miniera di storie ulteriori e scoperte sorprendenti (Sofri scrive: “Le Note hanno un’indicazione di massima dei luoghi del testo cui si riferiscono ma vorrebbero vivere di un’intermittente vita propria, come un libro ombra”). Attorno al problema filologico, legato a due parole piuttosto simili ed “elettriche”, è possibile immaginare un ulteriore intreccio: una sorta di corridoio di specchi che riflettono ingannevolmente pezzetti di verità. La natura in continua trasformazione, della vita e delle storie legate a La metamorfosi, sembra dare ragione proprio a Borges, che esce professionalmente male da questa vicenda, ma risulta essere comunque uno dei migliori “eredi di Kafka”.
http://www.doppiozero.com/materiali/kafka-un-tram-chiamato-lampione