zio fred
29-October-2011, 01:19
“Papà, hai i capelli un po’ lunghi devi andare a tagliarli”
Questa frase innocente di mia figlia poteva semplicemente farmi andare dal barbiere ed invece, guardate un po’, sono andato a prendere “Festa mobile” di Hemingway per rileggermi alcune righe che vagamente ricordavo. Ma per la verità essendo ormai in fase pre- parigina stavo solo cercando pretesti per iniziare la versione “restaurata” che ho da poco acquistato.
Come ricorderete il romanzo è rimasto incompiuto per la morte di Hemingway e pubblicato postumo, nel 1964 a cura della quarta moglie dello scrittore, Mary Welsh. A distanza di quasi cinquant'anni, il nipote di Ernest, Sean Hemingway, offre una edizione nella quale sono stati reintegrati alcuni capitoli scartati da Mary e viene rivista l’immagine di Pauline che non ruba il marito all’amica ma è lo stesso Ernst che confessa il suo rimorso nelle pagine ora reintegrate. Tra l’altro sembra che tra i motivo di interesse per Pauline ci fosse un Mirò: se Parigi vale una messa un’altra moglie val bene un Mirò
Ma io ricordavo le sensazioni del libro ed ora le rivivo in questa seconda lettura che mi emoziona. Qui è l’Hemingway squattrinato ed ardente nella Parigi della lost generation, di Gertude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Ezra Pound, James Joyce, Madox Ford. Hem è con la prima moglie e il bambino e scrive:
“ in una stanza che guardava su tutti i tetti e i camini dell’alta collina del quartiere, era un piacere. Nella stanza il camino tirava bene, faceva caldo e era un piacere lavorare. Vi portavo mandarini e caldarroste in imbuti di carta”.
Oppure andava in un caffè ]“Era un caffè simpatico, caldo, pulito e accogliente, e io appendevo il mio vecchio impermeabile all’attaccapanni per farlo asciugare e posavo il cappello di feltro, logoro e stinto, sulla rastrelliera sopra il sedile e ordinavo un café au lait. Il cameriere lo portava e io toglievo dalla tasca della giacca un taccuino e una matita e mi mettevo a scrivere…”
Questo passo ricorda il “ luogo pulito, illuminato bene” dell’Avana in uno dei primi racconti mentre qui siamo all’autobiografia di un vecchio leone malato. E’ memoria di angoli ventosi, di pioggia, delle strade fredde, degli impressionisti, nel frastuono agonistico del Velodromo d’inverno o nelle soffitte dove si discute, ci si accapiglia sull’arte e sulla vita, si beve.
E’ Parigi: “ Ma Parigi era una vecchissima città e noi eravamo giovani e là nulla era semplice, nemmeno la miseria, né il denaro insperato, né la luna, né la ragione e il torto, né il respiro di chi ci giaceva accanto sotto la luna”.
Il libro più vero di Ernest Hemingway, un uomo malinconico e con lui ci si commuove leggendo questi ricordi di chi sente il passato come la parte migliore, un inno alla gioventù questa sì perduta, ed il lettore sa che tra non molto giungerà il tragico suicidio consapevole di non avere più un futuro degno di essere vissuto.
Ma quando vive il suo presente, quando scrive è magnifico nel suo stile secco ed inimitabile ed dunque cara figliola, mia dolce Elena ecco perché tuo papà anzichè andare dal barbiere va alla libreria e si mette a rileggersi questo libro; ora sei troppo giovane per capire quanto anch’io mi possa commuovere su queste righe che mi riportano alla mia gioventù ed anche senza Parigi anche noi si era molto poveri ma molto felici.
"A volte mi imbattevo in certi corrispondenti stranieri e uno di loro mi prendeva da parte e mi parlava seriamente per il mio bene.
-Non devi lasciarti andare, Hem. Non è affar mio naturalmente. Ma non puoi andare in giro allo stato brado in questo modo. Per l’amor di Dio datti una regolata e almeno tagliati i capelli come si deve-.
Quelli che interferivano con la tua vita lo facevano sempre per il tuo bene e alla fine io capii che quello che volevano era che tu ti conformassi completamente e non ti discostassi mai da un certo modello esteriore comunemente accettato. Quelli non sapevano niente dei nostri piaceri né di quanto fosse divertente sentirsi dannati e mai avrebbero voluto o potuto saperlo. I nostri piaceri, che erano quelli dell’essere innamorati, erano tanto semplici e al contempo misteriosi e complicati quanto una semplice formula matematica che può significare ogni felicità o può significare la fine del mondo.
Adesso eravamo persone libere a Parigi e io non dovevo più fare l’inviato.
«E non ho più intenzione di tagliarmi i capelli» dissi mentre stavamo chiacchierando alla Closerie des Lilas a un tavolino dentro dove si stava al caldo. «No se non vuoi, Tatie». «Ho cominciato prima di partire da Toronto».
«Splendido. È un mese comunque». «Sei settimane». «Dovremmo prendere uno Chambéry Cassis per festeggiare». Li ordinai e dissi: «Ti piaceranno ancora?».
«Sì. Fa parte dell’essere liberi da tutti quegli orrori. Dimmi come saranno».
«Ti ricordi quei tre pittori giapponesi da Ezra?».
«Oh sì, Tatie, erano molto belli ma per quello ci vuole un sacco di tempo». «È così che li ho sempre voluti». «Possiamo provarci. Crescono tremendamente in fretta».
«Vorrei poterli avere in quel modo già da domani».
«Non c’è modo, Tatie, se non aspettare che crescano. Lo sai anche tu. Ci vuole proprio tanto tempo. Mi dispiace che sia così».
«Accidenti». «Fammi sentire». «Qui?». «Stanno crescendo benissimo. Devi solo aver pazienza». «Va bene. Non ci penso più». «Se non ci pensi magari crescono più in fretta. Sono così contenta che tu ti sia ricordato di cominciare subito».
Ci guardammo in faccia e ridemmo e poi lei disse una delle nostre cose segrete. «Così va bene». «Tatie, ho pensato a una cosa eccitante». «Dimmela». «Non so se dirla». «Dilla. Avanti. Per piacere dilla». «Ho pensato che forse potresti averli come i miei».
«Ma anche i tuoi continuano a crescere».
«No. Domani me li faccio solo pareggiare e poi ti aspetto. Non sarebbe una bella cosa per noi?». «Sì». «Io ti aspetto così poi li avremo tutti e due uguali». «Quanto tempo ci vorrà?». «Forse quattro mesi per essere proprio uguali». «Davvero?». «Davvero». «Altri quattro mesi?». «Credo». Ci sedemmo e lei disse una cosa segreta e io risposi con una cosa segreta.
«Gli altri penseranno che siamo matti».
«Poveri disgraziati gli altri» disse lei. «Ci divertiremo da matti, Tatie».
Questa frase innocente di mia figlia poteva semplicemente farmi andare dal barbiere ed invece, guardate un po’, sono andato a prendere “Festa mobile” di Hemingway per rileggermi alcune righe che vagamente ricordavo. Ma per la verità essendo ormai in fase pre- parigina stavo solo cercando pretesti per iniziare la versione “restaurata” che ho da poco acquistato.
Come ricorderete il romanzo è rimasto incompiuto per la morte di Hemingway e pubblicato postumo, nel 1964 a cura della quarta moglie dello scrittore, Mary Welsh. A distanza di quasi cinquant'anni, il nipote di Ernest, Sean Hemingway, offre una edizione nella quale sono stati reintegrati alcuni capitoli scartati da Mary e viene rivista l’immagine di Pauline che non ruba il marito all’amica ma è lo stesso Ernst che confessa il suo rimorso nelle pagine ora reintegrate. Tra l’altro sembra che tra i motivo di interesse per Pauline ci fosse un Mirò: se Parigi vale una messa un’altra moglie val bene un Mirò
Ma io ricordavo le sensazioni del libro ed ora le rivivo in questa seconda lettura che mi emoziona. Qui è l’Hemingway squattrinato ed ardente nella Parigi della lost generation, di Gertude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Ezra Pound, James Joyce, Madox Ford. Hem è con la prima moglie e il bambino e scrive:
“ in una stanza che guardava su tutti i tetti e i camini dell’alta collina del quartiere, era un piacere. Nella stanza il camino tirava bene, faceva caldo e era un piacere lavorare. Vi portavo mandarini e caldarroste in imbuti di carta”.
Oppure andava in un caffè ]“Era un caffè simpatico, caldo, pulito e accogliente, e io appendevo il mio vecchio impermeabile all’attaccapanni per farlo asciugare e posavo il cappello di feltro, logoro e stinto, sulla rastrelliera sopra il sedile e ordinavo un café au lait. Il cameriere lo portava e io toglievo dalla tasca della giacca un taccuino e una matita e mi mettevo a scrivere…”
Questo passo ricorda il “ luogo pulito, illuminato bene” dell’Avana in uno dei primi racconti mentre qui siamo all’autobiografia di un vecchio leone malato. E’ memoria di angoli ventosi, di pioggia, delle strade fredde, degli impressionisti, nel frastuono agonistico del Velodromo d’inverno o nelle soffitte dove si discute, ci si accapiglia sull’arte e sulla vita, si beve.
E’ Parigi: “ Ma Parigi era una vecchissima città e noi eravamo giovani e là nulla era semplice, nemmeno la miseria, né il denaro insperato, né la luna, né la ragione e il torto, né il respiro di chi ci giaceva accanto sotto la luna”.
Il libro più vero di Ernest Hemingway, un uomo malinconico e con lui ci si commuove leggendo questi ricordi di chi sente il passato come la parte migliore, un inno alla gioventù questa sì perduta, ed il lettore sa che tra non molto giungerà il tragico suicidio consapevole di non avere più un futuro degno di essere vissuto.
Ma quando vive il suo presente, quando scrive è magnifico nel suo stile secco ed inimitabile ed dunque cara figliola, mia dolce Elena ecco perché tuo papà anzichè andare dal barbiere va alla libreria e si mette a rileggersi questo libro; ora sei troppo giovane per capire quanto anch’io mi possa commuovere su queste righe che mi riportano alla mia gioventù ed anche senza Parigi anche noi si era molto poveri ma molto felici.
"A volte mi imbattevo in certi corrispondenti stranieri e uno di loro mi prendeva da parte e mi parlava seriamente per il mio bene.
-Non devi lasciarti andare, Hem. Non è affar mio naturalmente. Ma non puoi andare in giro allo stato brado in questo modo. Per l’amor di Dio datti una regolata e almeno tagliati i capelli come si deve-.
Quelli che interferivano con la tua vita lo facevano sempre per il tuo bene e alla fine io capii che quello che volevano era che tu ti conformassi completamente e non ti discostassi mai da un certo modello esteriore comunemente accettato. Quelli non sapevano niente dei nostri piaceri né di quanto fosse divertente sentirsi dannati e mai avrebbero voluto o potuto saperlo. I nostri piaceri, che erano quelli dell’essere innamorati, erano tanto semplici e al contempo misteriosi e complicati quanto una semplice formula matematica che può significare ogni felicità o può significare la fine del mondo.
Adesso eravamo persone libere a Parigi e io non dovevo più fare l’inviato.
«E non ho più intenzione di tagliarmi i capelli» dissi mentre stavamo chiacchierando alla Closerie des Lilas a un tavolino dentro dove si stava al caldo. «No se non vuoi, Tatie». «Ho cominciato prima di partire da Toronto».
«Splendido. È un mese comunque». «Sei settimane». «Dovremmo prendere uno Chambéry Cassis per festeggiare». Li ordinai e dissi: «Ti piaceranno ancora?».
«Sì. Fa parte dell’essere liberi da tutti quegli orrori. Dimmi come saranno».
«Ti ricordi quei tre pittori giapponesi da Ezra?».
«Oh sì, Tatie, erano molto belli ma per quello ci vuole un sacco di tempo». «È così che li ho sempre voluti». «Possiamo provarci. Crescono tremendamente in fretta».
«Vorrei poterli avere in quel modo già da domani».
«Non c’è modo, Tatie, se non aspettare che crescano. Lo sai anche tu. Ci vuole proprio tanto tempo. Mi dispiace che sia così».
«Accidenti». «Fammi sentire». «Qui?». «Stanno crescendo benissimo. Devi solo aver pazienza». «Va bene. Non ci penso più». «Se non ci pensi magari crescono più in fretta. Sono così contenta che tu ti sia ricordato di cominciare subito».
Ci guardammo in faccia e ridemmo e poi lei disse una delle nostre cose segrete. «Così va bene». «Tatie, ho pensato a una cosa eccitante». «Dimmela». «Non so se dirla». «Dilla. Avanti. Per piacere dilla». «Ho pensato che forse potresti averli come i miei».
«Ma anche i tuoi continuano a crescere».
«No. Domani me li faccio solo pareggiare e poi ti aspetto. Non sarebbe una bella cosa per noi?». «Sì». «Io ti aspetto così poi li avremo tutti e due uguali». «Quanto tempo ci vorrà?». «Forse quattro mesi per essere proprio uguali». «Davvero?». «Davvero». «Altri quattro mesi?». «Credo». Ci sedemmo e lei disse una cosa segreta e io risposi con una cosa segreta.
«Gli altri penseranno che siamo matti».
«Poveri disgraziati gli altri» disse lei. «Ci divertiremo da matti, Tatie».